Le ombre dopo il Mostro

Dalla fine dei “Compagni di merende” alle piste che non hanno mai smesso di bruciar

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domenica 09 novembre 2025 17:25

Dopo i processi a Mario Vanni e Giancarlo Lotti, molti pensarono che il caso del Mostro di Firenze fosse finalmente chiuso. Ma per chi aveva vissuto l’indagine dall’interno — come Michele Giuttari, capo della Squadra Mobile, e il pubblico ministero Paolo Canessa — quella non fu una fine, ma una pausa.
Un respiro trattenuto.
Dietro gli esecutori, forse, c’era ancora un’ombra più grande.

 

Per anni la Squadra Antimostro (S.A.M.) continuò a lavorare in silenzio. Riaprì faldoni, riascoltò testimoni, confrontò perizie. Fra quelle carte nacquero le ultime piste, le più discusse e controverse.

 

La pista esoterica

Fu Giuttari a imboccarla con convinzione, insieme a Canessa.
Le mutilazioni inflitte alle vittime — la sottrazione di parti del corpo, il loro taglio preciso e ripetuto — non sembravano solo gesti di ferocia. Nelle ipotesi degli investigatori, potevano essere atti rituali, parte di un disegno simbolico.

Alcuni testimoni parlarono di un uomo misterioso, chiamato “il Dottore”: colto, distinto, forse legato agli ambienti bene della città. Nessuno fu mai identificato con certezza, ma quel soprannome bastò a scatenare l’immaginario.

La stampa si infiammò. Si scrisse di sette, di riti satanici, di mandanti potenti.
Le prime pagine mescolarono indizi e leggende, e il confine fra realtà e suggestione divenne sottile.

Ma dentro i fascicoli della S.A.M. non emerse mai una prova concreta. Nel 2006 la pista fu archiviata, e con essa l’idea di un delitto rituale.
Rimase soltanto un’eco inquieta: il sospetto che il Mostro non fosse mai stato solo.

 

Il mistero Narducci

Pochi anni dopo, un nome riemerse dai fondali della cronaca: Francesco Narducci, medico perugino, trovato morto nel 1985 nel lago Trasimeno, in circostanze mai del tutto chiarite.
Il caso era stato chiuso come suicidio.
Ma nei primi anni Duemila, Giuttari e il magistrato Giuliano Mignini trovarono collegamenti tra quel nome e alcune conversazioni legate all’inchiesta sul Mostro.

Nel 2002 la salma fu riesumata.
Le perizie indicarono segni compatibili con strangolamento e l’assenza di acqua nei polmoni. Un suicidio, dunque, difficile da sostenere.

Da lì nacque l’ipotesi di un omicidio mascherato, forse collegato ai delitti del Chianti.
L’indagine si allargò a medici, ufficiali, membri dell’élite umbra. Ma anche in questo caso, le prove non arrivarono mai.
Nel 2010, la Cassazione archiviò definitivamente il fascicolo: la morte di Narducci restava “in parte inspiegata”, ma senza legami diretti con il Mostro di Firenze.

 

Era, ancora una volta, un mistero nel mistero.

 

Il filone Vigilanti

Negli anni successivi emerse un altro nome: Giampiero Vigilanti, ex legionario e appassionato d’armi, residente a Prato. Aveva conosciuto Pacciani, viveva non lontano dalle zone dei delitti e compariva in vecchi rapporti.

Tra il 2015 e il 2017, la Procura di Firenze tornò a indagare su di lui, cercando la pistola Beretta calibro .22 Long Rifle — l’arma dei delitti. Furono disposte nuove perquisizioni e analisi balistiche.
Non emerse nulla.

 

Nel 2021, anche questo filone fu archiviato.
Con esso, si chiuse l’ultimo tentativo ufficiale di dare un volto diverso al Mostro.

 

Le teorie e i miti

Col passare degli anni, la cronaca lasciò spazio alle suggestioni.
Cacciatori di organi, piste francesi, imitatori, fino all’ipotesi più romanzesca: quella che collegava il Mostro di Firenze allo Zodiac Killer americano.
Le analogie — le coppie appartate, i bossoli calibro .22, le lettere — erano affascinanti, ma solo in superficie.
Più letteratura che indagine.

Queste teorie non aggiunsero prove, ma contribuirono a trasformare il Mostro in un mito, una figura che travalicava la cronaca per entrare nella cultura popolare.

 

Le radici sarde

Fra tutte, solo una pista resiste nel tempo: quella sarda, l’origine di tutto.
Il delitto di Signa del 1968, con Stefano Mele e i fratelli Vinci, resta la prima scintilla. Negli ultimi anni, nuovi elementi genetici — come la scoperta che Natalino Mele non era figlio biologico di Stefano, ma di Giovanni Vinci — hanno riacceso il dibattito.
Non collegano i Vinci ai delitti successivi, ma rimettono in discussione il movente del primo omicidio.
È da lì che nasce tutto: il nucleo oscuro da cui il mito ha preso forma.

 

L’eredità del buio

Oggi, soltanto la versione giudiziaria dei Compagni di merende rimane nella verità ufficiale.
Tutto il resto — piste, nomi, simboli — si è dissolto tra fascicoli e memoria collettiva.

Eppure il Mostro di Firenze continua a vivere.
Nei podcast, nei documentari, nei romanzi.
Non più come assassino, ma come specchio di un Paese e di una città che non riescono a dimenticare.

Forse la sua forza non è mai stata nella certezza, ma nella persistenza:
quella domanda che, dopo quarant’anni, continua a risuonare nelle colline toscane.

 

Non chi fosse il Mostro.
Ma perché, anche dopo la fine, abbiamo continuato a tenerlo vivo nella memoria.

 
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