Il volto del Mostro

La caccia, l’arresto di Pacciani e il processo che divise Firenze

1 Visualizzazioni

giovedì 30 ottobre 2025 09:00

Dopo l’ultimo delitto del 1985, Firenze tirò un sospiro che somigliava alla fine di un incubo. Le coppie tornarono a frequentare le colline, i genitori smisero di trattenere i figli in casa e, lentamente, la vita riprese il suo ritmo.

Ma nelle caserme e negli uffici della questura la paura non si era mai spenta del tutto. Gli uomini della Squadra Anti Mostro, la S.A.M., continuarono a lavorare in silenzio, lontano dai riflettori. Il loro compito era diverso, ora: non più inseguire il killer tra le strade buie, ma mettere ordine nel caos lasciato da anni di indagini.

Centinaia di faldoni, verbali e perizie riempivano le stanze come un archivio vivente. Era un lavoro meticoloso, quasi monastico, fatto di letture lente, di confronti, di piccoli collegamenti che potevano rivelarsi decisivi.

E proprio in quel lavoro d’ombra, paziente e ostinato, cominciò a riemergere una visione d’insieme. Per la prima volta dopo anni, il caso del Mostro sembrava tornare a respirare.
 

La rinascita della S.A.M.

Alla fine degli anni Ottanta la S.A.M. venne riorganizzata. A coordinarla fu chiamato Pier Luigi Vigna, magistrato asciutto e razionale, capace di tenere insieme metodo e intuito. Accanto a lui lavoravano Paolo Canessa, mente silenziosa e infaticabile, e l’ispettore Ruggero Perugini, uomo di campo, attento ai dettagli che altri avrebbero trascurato.

Insieme provarono a dare un senso a un labirinto di indizi che, fino a quel momento, sembrava non condurre da nessuna parte.

Nei mesi successivi la squadra cominciò a costruire un archivio imponente: più di seicento schede personali, una per ogni sospettato passato, presente o potenziale.

C’erano contadini e artigiani, guardie giurate ed ex militari. Ogni scheda conteneva una vita intera condensata in poche righe: domicilio, abitudini, precedenti, amicizie, spostamenti, conoscenze di armi.

Sulle scrivanie si accumulavano faldoni, fotografie in bianco e nero, note battute a macchina. Sembrava un mosaico infinito. Eppure ogni tassello, anche il più banale, poteva essere quello giusto.

Fu così che, tra le tante schede, ne riemerse una che attirò subito l’attenzione. Il nome era noto: Pietro Pacciani, contadino di Mercatale Val di Pesa, classe 1925.

Fu allora che la città capì che il Mostro non era soltanto un assassino, ma una storia che non voleva finire.

 

La scheda Pacciani

Il suo passato parlava da sé.
Nel 1951 era stato condannato a tredici anni di carcere per l’omicidio di Severino Lo Bianco (senza legami con le vittime del Mostro).Secondo la sentenza, lo aveva sorpreso in un campo con la fidanzata, lo aveva aggredito, ucciso con ferocia e poi abusato della donna.

Dopo aver scontato la pena – abbreviata da un indulto – era tornato libero.Si era sposato, aveva avuto due figlie e si era ritirato a vivere in una piccola casa colonica, ai margini dei boschi. In paese lo chiamavano il Vampa, per il carattere irruento, la parlantina ruvida, la tendenza a infiammarsi per un nonnulla.

Col tempo, il suo nome era riapparso nei rapporti dei carabinieri per denunce di maltrattamenti in famiglia. Fu proprio durante un intervento per una di queste accuse, nel 1989, che scattò una perquisizione. Dentro casa, gli agenti trovarono una cartuccia calibro .22 Winchester con marchio “H” — la stessa lettera impressa sui bossoli ritrovati accanto alle vittime del Mostro.

Non era una prova definitiva, ma un indizio pesante.
Bastò a rimettere quel nome in circolo, a farlo scivolare lentamente dal margine al centro dell’indagine.

Le testimonianze raccolte a Mercatale tracciavano un ritratto contraddittorio. C’era chi lo descriveva come un uomo violento e scontroso, e chi, con un mezzo sorriso, lo difendeva come “uno di campagna, tutto di testa e di bestemmie, ma senza malizia”.
Quel volto diviso tra paura e indulgenza colpì molto gli inquirenti. Un personaggio così, radicato nel territorio e segnato da un passato sanguinoso, non poteva essere ignorato.
 

Dalla scheda all’arresto

Negli anni seguenti la Squadra Anti Mostro continuò a scavare. Ogni elemento legato a Pacciani fu riesaminato: vecchie testimonianze, appunti, spostamenti.

Quando, nel 1992, gli investigatori tornarono a perquisire la sua abitazione, trovarono nuovi ritagli di giornali sui delitti e altri proiettili compatibili con l’arma del Mostro.
Era il tassello che mancava per convincere la procura ad agire.

Il 16 gennaio 1993, Pietro Pacciani fu arrestato con l’accusa di essere il Mostro di Firenze. La notizia si diffuse come un fulmine: dopo quindici anni di terrore e silenzio, la città aveva finalmente un volto su cui posare il proprio sguardo.

Un contadino del Chianti, un uomo di campagna, un nome qualunque diventava improvvisamente il simbolo del male assoluto.
 

Il processo del secolo

Il processo si aprì nel 1994 e divenne subito un fenomeno mediatico. Per la prima volta, il Mostro aveva un volto da guardare. E un’aula intera pronta a giudicarlo.

Le televisioni arrivarono da tutta Europa, i giornali dedicavano intere pagine alla figura del “mostro contadino”.
Firenze si trovò catapultata in un dramma collettivo: dentro l’aula si discuteva di prove e testimonianze, fuori, la città cercava di riconoscere se stessa in quella storia.

Durante le udienze, l’aula si trasformava spesso in un teatro involontario. Le risposte di Pacciani, il suo linguaggio ruvido e contadino, le proteste urlate ai giudici o le battute che scivolavano nel grottesco provocarono momenti di imbarazzo e persino di risa trattenute.
Era un contrasto feroce: mentre si parlava di orrori inenarrabili, la scena assumeva a tratti i toni di una farsa tragica, dove la provincia e il male più oscuro condividevano lo stesso spazio.

In quell’aula, il Mostro di Firenze smetteva di essere solo un incubo collettivo: diventava un dramma umano, crudele e assurdo insieme.

Il dibattimento durò mesi. L’accusa, guidata da Vigna e Canessa, presentò le perizie balistiche, le tracce trovate in casa, le coincidenze temporali. La difesa rispose colpo su colpo, sostenendo che nulla di tutto ciò provava la colpevolezza. Nelle piazze e nei bar si discuteva con la stessa passione con cui, un tempo, si parlava di calcio o di politica.

Il Mostro non era più solo un assassino invisibile: era diventato un personaggio, uno specchio deformante in cui la città vedeva riflessi i propri fantasmi.
 

La morte di Pacciani

Il 22 febbraio 1998, Pietro Pacciani fu trovato morto nella sua casa di Mercatale. Era disteso accanto al letto, i pantaloni sbottonati, una bottiglia di vino e un flacone di farmaci sul comodino.
L’autopsia parlò di infarto miocardico, ma le circostanze sollevarono dubbi e sospetti.

Pacciani soffriva di cuore, assumeva medicinali controindicati con l’alcol, eppure la scena sembrava più complessa di una semplice fatalità. La procura archiviò il caso come morte naturale, ma per molti rimase l’ennesimo mistero dentro il mistero.
 

Dopo Pacciani

Con la sua morte scomparve l’unico imputato, ma non l’ombra del Mostro.Firenze tornò a interrogarsi, a chiedersi se davvero fosse finita.

Qualcuno sentì che la città stava finalmente guarendo.Altri ebbero l’impressione che la storia stesse solo cambiando voce.

Fu allora che il Mostro tornò a parlare, attraverso nuove accuse e nuovi nomi.

 

Era l’inizio della stagione dei compagni di merende.

 

Se ti sei perso l’inizio leggi:

 

1. L’estate del Mostro.

2. Il passato tornò ad uccidere

3. L'ultima estate del Mostro

 

 
logo-055 firenze

C & C Media s.r.l.
p.iva 06282890489

powered by Genetrix s.c.r.l. - web agency, applicativi web, siti internet, grafica

055firenze.it
Quotidiano online
registrato presso il tribunale di Firenze
nr. 5937 del 18/10/2013.