Le ultime ombre del Mostro
Dopo Pacciani, le indagini sui Compagni di Merende riaprono l’incubo di Firenze
martedì 04 novembre 2025 10:30
Dopo la morte di Pietro Pacciani, la storia del Mostro di Firenze sembrava chiusa per sempre.
E invece, appena un anno più tardi, le indagini ripresero vita in modo inatteso — come se l’ombra di quella vicenda non avesse mai smesso di allungarsi.
Per la prima volta, gli inquirenti cominciarono a parlare apertamente di complici: che Pacciani non avesse agito da solo, ma fosse parte di un piccolo gruppo di uomini, uniti da segreti e silenzi.
A guidare questa nuova fase fu Michele Giuttari, capo della Squadra Antimostro, che decise di riaprire i vecchi fascicoli dopo la scomparsa del contadino di Mercatale. Il suo obiettivo era capire se, dietro la figura di Pacciani, si nascondesse qualcosa di più grande e organizzato.
Nel frattempo, Firenze tornava a interrogarsi. La stampa riscopriva la paura, parlava di ritorno del Mostro, e per molti l’incubo sembrava ricominciare da capo.
 
Un nuovo inizio
Giuttari non era un volto nuovo in questa storia. Aveva già collaborato con la S.A.M. negli anni Ottanta, conosceva i faldoni e le contraddizioni di ogni indagine passata, e decise di ricominciare da lì: dai dettagli dimenticati, dalle voci che nessuno aveva mai davvero ascoltato.
Fra quei nomi minori che ricomparivano più volte nei vecchi verbali ce n’era uno in particolare: Giancarlo Lotti.
Lotti, un uomo di San Casciano, era stato amico di Pacciani e di Mario Vanni, il vecchio postino del paese. Compariva in alcune testimonianze come una figura di contorno: sempre presente, ma mai protagonista. Uno che “sapeva”, ma non parlava.
Quando, nel 1998, Giuttari lo fece convocare di nuovo, Lotti era un uomo diverso: fragile, provato, quasi intimorito. E fu in quell’atmosfera tesa e carica di attesa che cominciò a parlare.
 
Lotti e Vanni
Le sue prime parole furono esitanti, poi sempre più precise. Disse di aver assistito a due omicidi e di aver visto con i propri occhi Mario Vanni sparare alle coppie nelle campagne toscane.
Le sue dichiarazioni erano confuse, segnate dalla fragilità di un uomo semplice, poco avvezzo ai tribunali, ma contenevano dettagli che gli inquirenti giudicarono impossibili da inventare.
Nelle deposizioni comparvero anche altri nomi, uomini della zona, conosciuti di vista o di paese. Furono ascoltati e interrogati, ma nessuno di loro finì sotto accusa.
Le parole di Lotti, pur piene di contraddizioni, bastarono però a riaccendere il motore delle indagini.
Attorno a lui prese forma un piccolo gruppo, quello che la stampa avrebbe poi battezzato “i compagni di merende” — un’espressione nata dal modo con cui Lotti descriveva le serate trascorse con Pacciani e Vanni.
Vanni, soprannominato il Torsolo, era un ex postino dal carattere duro e dalla parlata brusca. Aveva frequentato Pacciani per anni e, secondo le dichiarazioni di Lotti, lo avrebbe aiutato in più di un’occasione, fino a sparare lui stesso almeno una volta.
Lotti lo descriveva come “il più deciso”, quello che non esitava.
Vanni negò tutto con ostinazione, sostenendo di non aver mai partecipato agli omicidi. Ma le sue parole non bastarono a scalfire l’impianto accusatorio costruito su testimonianze, perizie e riscontri incrociati.
 
Le nuove indagini di Giuttari
Tra il 1998 e il 1999, Giuttari ampliò le indagini, tornando sui luoghi dei delitti, rileggendo testimonianze e ordinando nuove perizie balistiche. I risultati non portarono prove inedite, ma le dichiarazioni incrociate di Lotti e Vanni divennero il fulcro dell’accusa.
Nel 1999 si aprì così il processo ai Compagni di Merende, e le aule del tribunale di Firenze si riempirono di nuovo di giornalisti, telecamere e curiosi.
La città rivisse la tensione dei processi Pacciani, in un clima sospeso fra incredulità e morbosità collettiva.
 
Il processo e la condanna
Nel 2000, la Corte d’Assise di Firenze condannò Giancarlo Lotti a 26 anni di reclusione e Mario Vanni all’ergastolo. Fu la prima volta che la giustizia riconobbe ufficialmente che Pacciani non aveva agito da solo.
Le sentenze successive — in appello e in Cassazione — confermarono le condanne, anche se negli anni seguenti Lotti ritrattò gran parte delle proprie dichiarazioni, sostenendo di essersi inventato tutto. I giudici, tuttavia, non gli credettero: le sue prime confessioni restavano troppo coerenti con alcuni riscontri oggettivi.
Quando le porte del tribunale si chiusero, sembrò che anche il Mostro tornasse al silenzio.
Ma dietro quelle sentenze, qualcuno continuava a cercare.
 
La S.A.M. e l’eredità di Giuttari
Dopo il processo, la Squadra Antimostro non venne sciolta formalmente, ma ridimensionata. Giuttari la mantenne operativa ancora per qualche anno, portando avanti indagini su possibili mandanti e collegamenti con ambienti esterni al Chianti.
Per lui fu la prosecuzione naturale del lavoro iniziato molti anni prima: un tentativo di chiudere il cerchio, anche a costo di riaprire vecchie ferite.
Ma col tempo, l’inchiesta perse forza, schiacciata da polemiche e da una verità che sembrava sempre più sfuggente.
 
Punti oscuri
Restano ancora oggi molte domande.
Perché Lotti decise di parlare dopo tanto tempo?
Quanto delle sue parole era verità, e quanto paura o suggestione? E soprattutto: se davvero Pacciani, Vanni e Lotti furono i colpevoli, chi orchestrò tutto?
Nonostante condanne e archiviazioni, il senso di incompletezza rimane.
 
L’eredità del caso
Negli anni successivi, Giancarlo Lotti morì nel 2002 nel carcere di Volterra, mentre Mario Vanni si spense nel 2009, detenuto a Prato. Le loro morti chiusero definitivamente il capitolo giudiziario dei Compagni di Merende, ma non quello delle domande rimaste aperte.
Per l’opinione pubblica, la loro storia segnò l’ultimo grande capitolo del Mostro di Firenze.
Ma per Firenze fu l’inizio di un nuovo silenzio.
Fu un silenzio diverso: non più di paura, ma di stanchezza.
La città, dopo vent’anni di orrore, sembrava non avere più voce.
La cronaca si fece memoria, e la memoria, lentamente, divenne mito.
