Il passato tornò a uccidere
Due lettere e una pistola riportano a galla il passato: il Mostro non si era mai fermato.
mercoledì 22 ottobre 2025 14:00
Dopo tre delitti in poco più di un anno, Firenze cercava un volto al proprio incubo.
L’estate del 1982 finì nel silenzio teso, rotto solo dai posti di blocco sulle colline. Negli uffici della Procura di Firenze il lavoro non si era mai fermato.
La sostituta procuratrice Silvia Della Monica e il giudice istruttore Vincenzo Tricomi avevano un sospetto: che i tre delitti recenti non fossero l’inizio, ma la fine di una catena molto più lunga.
Per capire chi fosse davvero il Mostro, cominciarono a guardare nel passato.
Poi arrivarono le lettere anonime.
La voce dal buio
La prima arrivò alla fine dell’estate del 1982, dattiloscritta, indirizzata a Silvia Della Monica. Non c’erano nomi, né firme, né richieste. Solo un invito: guardare indietro.
L’autore parlava di “vecchie coppiette uccise” e lasciava intendere che la pistola calibro .22 avesse già sparato prima del 1981. Poche righe, ma bastarono per riaccendere fascicoli impolverati.
A ottobre ne arrivò un’altra, diretta a Vincenzo Tricomi. Il tono era più preciso, quasi accusatorio: si parlava di un “quinto duplice omicidio”, un episodio dimenticato.
Tra le righe, l’allusione al delitto del 1968, quello di Signa, era evidente.
Le lettere non furono mai attribuite. C’era chi pensava a un informatore vicino agli ambienti investigativi, chi a un depistatore.
Ma avevano centrato il bersaglio: le perizie balistiche cominciarono a collegare tutto.
Rabatta, 1974
Il primo fascicolo a essere riaperto fu quello di Borgo San Lorenzo, località Rabatta, 14 settembre 1974.
Le vittime erano Stefania Pettini, diciotto anni, studentessa, e Pasquale Gentilcore, diciannove, universitario.
Avevano solo diciott’anni e una notte d’estate davanti. Nessuno avrebbe dovuto trovare i loro nomi in un fascicolo.
La loro Fiat 127 bianca fu trovata la mattina seguente in un campo, poco lontano da una strada sterrata. Dentro l’auto, Pasquale era riverso sul sedile di guida, colpito da diversi colpi di pistola.
A trenta metri, in mezzo all’erba alta, giaceva Stefania, nuda, mutilata e colpita con ferocia. Era stata trafitta con oltre novanta coltellate, concentrate soprattutto all’addome e al pube. Gli abiti erano stati tagliati con una lama, e accanto al corpo furono trovati bossoli calibro .22.
Sul corpo, i periti rilevarono anche la presenza di un rametto di vite inserito nella vagina, un gesto deliberato che rivelava un’intenzione rituale mai vista prima.
Nel 1974 si parlò di un “maniaco sessuale”, ma il caso finì presto nel nulla. Otto anni dopo, la perizia balistica ordinata da Silvia Della Monica stabilì che quei bossoli erano identici a quelli dei delitti del 1981-82: stessa pistola, stessa serie Winchester “H”.
Il delitto di Rabatta non era un episodio isolato: era un anello della catena.
Signa, 1968
L’indagine successiva riportò alla luce un fascicolo dimenticato: il duplice omicidio di Signa, 21 agosto 1968, il più lontano nel tempo e, forse, il più tragico.
Le vittime erano Barbara Locci, trentaduenne di origine sarda, e Antonio Lo Bianco, trentenne, suo amante.
Quella notte i due erano in auto, una Alfa Romeo Giulietta, parcheggiata in una zona isolata.
Barbara aveva portato con sé il figlio di sei anni, Natalino, che dormiva sul sedile posteriore.
I colpi arrivarono nel buio: calibro .22. L’assassino sparò più volte, poi scomparve portando via il bambino.
Fu l’assassino stesso, secondo le ricostruzioni successive, ad accompagnare Natalino fino alla casa della zia, a qualche chilometro di distanza.
Fu lì che il piccolo bussò alla porta dicendo:
“La mamma e lo zio sono morti nella macchina.”
Per quel delitto fu condannato il marito della donna, Stefano Mele, in un caso che sembrava di gelosia familiare.
Ma Mele non seppe mai spiegare da dove provenisse la pistola, né che fine avesse fatto l’arma.
Le sue dichiarazioni confuse e le origini sarde di tutti i protagonisti portarono, proprio nel 1982, alla nascita della cosiddetta “pista sarda”, che avrebbe segnato le indagini per anni, intrecciando sospetti e ipotesi mai del tutto chiarite.
Quando, nel 1982, gli esperti riesaminarono i bossoli del ’68, scoprirono che provenivano dalla stessa pistola calibro .22, poi identificata come una Beretta, dei delitti recenti.
Da quattordici anni, la stessa arma scriveva la stessa paura.
Un passato che non passa
In poche settimane, la storia del Mostro si allungò all’indietro di due generazioni. I giovani morti del 1981 e 1982 si ritrovarono accanto a nomi dimenticati, vittime di un passato che tornava a vivere nei fascicoli della procura.
Le lettere anonime avevano aperto la strada, la scienza aveva costruito il ponte. Il Mostro di Firenze non era più solo un assassino contemporaneo: era una presenza antica, capace di sopravvivere al tempo e alle indagini.
E mentre la città cercava di capire, l’assassino era già pronto a colpire di nuovo.