Il racconto di Silvia, infermiera che ha contratto il Covid. Più di 30 giorni nell'albergo sanitario
"Noi infermieri non siamo eroi. "
mercoledì 17 giugno 2020 09:55
Spesso ci accorgiamo di quello che abbiamo solo quando lo perdiamo. Sembra un banale aforisma, diventato attuale con l'emergenza Covid 19 che ha colpito Firenze e il mondo. Ma Silvia Pinna, infermiera classe 1987, ha scoperto sulla sua pelle la verità che si nasconde dietro tali parole.
Silvia lavorava per una struttura privata in provincia di Firenze da 6 anni come infermiera e, come il resto del mondo, non aveva percepito la potenza e la pericolosità del coronavirus fino a quando il virus non è entrato nel suo posto di lavoro.
Una sera è tornata a casa con mal di gola e mal di testa, ma non ha dato peso alla cosa dato i turni pesanti e estenuanti. Poi il suo collega le ha detto di essere positivo. E lei ha ricollegato quei lievi sintomi al Covid. "Ho avuto l'esito del tampone il giorno di Pasqua: ero positiva" ci racconta.
Silvia vive in provincia di Firenze, in casa con i genitori sessantenni, entrambi con qualche problemino medico. Il mondo di Silvia si riduce quindi alla sua camera, come unica sua compagna la paura di contagiare i suoi genitori. "Ogni oggetto che toccavo veniva disinfettato con la candeggina, dovevo avvisare quando andavo in bagno e lasciare la finestra aperta almeno per 10 minuti. Mia madre mi lasciava il cibo su uno sgabello" ci racconta.
Silvia chiede di poter essere ospitata in un albergo sanitario, per essere libera dalla paura di infettare i suoi genitori, ma solo il 25 Aprile la sua richiesta viene accontentata e Silvia viene ospitata in un albergo in Via di Ripoli.
I suoi genitori, intanto, riescono a fare il tampone solo dopo la quarantena obbligatoria e risultano entrambi negativi.
"L'ingresso dell'albergo era completamente incelofanato. Non potevo uscire dalla mia camera, c'erano anche le telecamere che controllavano gli spostamenti di chi era ospite" ci racconta. Fisicamente Silvia stava bene. Il mal di testa, la leggera tosse, il mal di gola e la febbre ( sempre lieve) sono spariti.
Ogni mercoledì le viene fatto il tampone e il risultato è sempre positivo. Cosa fare allora? "Mi sono fatta portare detersivi e vestiti dai miei genitori. Mi ero portata il cambio per 15 giorni, fiduciosa di essere presto a casa. Nell'albergo sanitario gli oggetti possono entrare nelle stanze, ma non uscire. Dovevo farmi il bucato da sola" ci racconta.
Ma cosa fare? "I primi giorni sono stati i più difficili, poi mi sono creata una mia routine. Mi svegliavo alle 9.30 e aspettavo le due signore delle pulizie. Era il mio unico contatto umano, rimanevano più o meno 15 minuti e parlavamo. Poi passavano i medici a misurare la febbre e pranzavo. Dopo leggevo, guardavo la Tv, mi allenavo , studiavo e sentivo la mia famiglia e i miei amici" racconta. Giornate apparentemente normali, giornate dove la lancetta del tempo non sembrava scorrere.
"Nella struttura c'erano circa altre dieci persone. Al piano di sotto c'era una mia collega, ma era complicato parlare dalla finestra. Ogni tanto ordinavamo una pizza, per fare qualcosa di diverso" Una pizza come una lieve trasgressione, come una fettina di normalità.
Il 29 Maggio il tampone ha dato esito negativo. Ma ne servono due per avere la certezza di essere riusciti a vincere il virus. Arriva pochi giorni dopo anche il secondo esito negativo e Silvia è libera.
"Le cose che mi sono mancate di più sono state il sole sulla pelle e il contatto fisico. Non amo gli abbracci o essere toccata, ma mi sono accorta di quanto mi sia mancato un abbraccio in quei giorni" ci racconta.
E ora? Adesso Silvia ha trovato lavoro nel settore pubblico e sta svolgendo le analisi necessarie per completare l'assunzione. Donerà il plasma per aiutare le persone e si godrà la ritrovata libertà.
"Noi infermieri non siamo eroi. Non chiamateci eroi, ci fate del male. Siamo persone che facciamo il nostro lavoro con amore e passione. Io mi ero candidata per andare a Bergamo con la Protezione Civile perché mi sembrava di non fare abbastanza" ci racconta. Tutti i suoi colleghi sono guariti ma mediamente sono serviti una 50ina di giorni per uscire dal tunnel del covid.
"Mi ha colpita l'assenza di un aiuto psicologico. Curare un paziente non vuol dire curare il corpo, ma anche la mente. Mi sono trovata sola in una camera d'albergo." Una situazione che molti definirebbero infernale, ma che non ha intaccato il sorriso e la passione di Silvia.